19/04/12

Wondering where the love went.

Di come non ho più paura del buio.

Carlo insiste perché io vada a cena a casa sua. Ci sono lui, i suoi coinquilini, gli amici dei suoi coinquilini. Dice che posso portare il cane. Non ho molta voglia di tutta questa socialità ma mi sforzo ad andare, anche perché la mia vita infrasettimanale si sta riducendo allo zero.
Arrivo e l’appartamento è già mezzo pieno. In realtà ho già visto quasi tutti in occasioni simili passate, ma ogni volta che incrocio gente, questa mi dà la mano e si presenta, che da un lato è una cosa gentile, dall’altro la manderei a fanculo. Non è colpa loro: ci sono quelle persone che vedi ad una frequenza talmente insufficiente che ti si presenteranno all’infinito come fosse la prima volta. Il problema è che tu invece te ne ricordi.
All’inizio è tutto un mio stare dietro al cane e “vieni qui” e “non andare là”, poi decido di sbattermene, che se mi hanno detto di portarlo era meglio che chiudessero anche le porte di bagni e camere da letto.
Sono venuto in macchina, quindi non posso bere, ma un bicchiere ad inizio serata me lo faccio, del primo vino rosso aperto che trovo sul tavolo, versato dentro un bicchiere da birra.
Il tempo passa in fretta. Manca il dolce e dato che sono venuto a mani vuote mi offro di andare a prendere qualcosa alla bottega dell’indiano sotto casa, unica risorsa aperta. Torno con un sacchetto pieno di grisbì e nutella e altre porcherie.
Alla fine non voglio rinunciare alle mie ore di sonno e dopo aver dato un ciao generale a tutti, compresi quelli a fumarsi le canne in terrazza, e aver constatato che nessuno si strappa i capelli, mi infilo la giacca.

A casa, appena entrato con ancora le chiavi in mano, accendo la luce e si fulmina la lampadina. Rimango in piedi nel silenzio. Il rumore sordo che ho sentito dev’essere il povero Birillo che sbatte contro la porta che si chiude. Non ho fretta di andare ad accendere un’altra luce o paura alcuna. Mi godo il momento, l’unico dispiacere è proprio quello che non avvertirò alcunché.