10/11/14

Just a perfect day.

C’è chi sa comandare.
Gente nata per essere capo, che ci sa proprio fare a dare ordini.

Io no.

Non so, penso a mia zia che ha un negozio e fa filare le commesse come schegge, mentre magari con me che sono nipote è così affettuosa e materna.
Penso a quei professoroni non cattivi, ma con cui non vola una mosca in aula.
O ancora semplicemente a quelle madri e mogli che sono delle generalesse in casa e sanno cosa va fatto e chi lo deve fare e neanche i mariti fiatano, figuriamoci i figli.

Ripeto, io no.

E’ più probabile che io usi un tono accondiscendente, simpatico, complice.
Niente di più sbagliato. Prima di tutto perché fa suonare l’ordine come una richiesta. E poi perché un capo non è complice. Un capo non è amico, deve rinunciare a rivestire questi ruoli perché non si può essere entrambe le cose.

E’ assai probabile che nel momento in cui mi rompo i coglioni e voglio esser rispettato per davvero, l’impeto con cui a quel punto ordino è sovradosato rispetto al necessario (e solo io in quel momento so quanta pazienza ho avuto fin lì).

No, io non lo sono, un capo. E probabilmente mai lo sarò.

24/10/14

They tell of spring returning

Mentre la società dibatte sulle unioni civili, il mio sogno di vita di coppia naufraga miseramente.
Nel peggiore dei modi. Nel più scontato degli epiloghi.

Anche se noi eravamo quelli perfetti.

E allora, che si deve fare.

Nulla, dico io. Ci si rimette in carreggiata. Si impara di nuovo a stare da soli, a cambiare abitudini, a rimpolpare le amicizie. Mi metto a dieta, faccio crescere il ciuffo, riprendo a far lievitare bicipiti e pettorali (gli addominali non sono mai stati il mio forte), faccio un nuovo tatuaggio. E metto via le tue foto, i tuoi regali, ogni cazzo di elemento che mi ricordi te, come se non bastasse già il picchio che ho in testa e che mi martella.

E’ un fallimento? Eccome.
Mi vergogno? Oh, sì.

Ma non perché ci sia qualcosa di male. Capita.
E’ che non sopporto più di essere il gay che salta da un fidanzato all’altro, che giura amore eterno fino al giorno in cui alla domanda “come sta il tuo fidanzato?” liquido con un “ci siamo lasciati e non intendo parlarne”. Ma tant’è.

Comunque, siamo di nuovo qui, io e il mio lavoro, io ed il cane.
Intanto vado a Londra, intanto mi diverto.

Poi si vedrà.

11/09/14

Delle sensazioni nel riguardare Dawson’s Creek.

Durante il mio agosto lavorativo, tornando a casa ad un’ora decentissima, ho scoperto che Italia1 ridava Dawson’s Creek e ho preso a guardarlo.
Tralascio le considerazioni su chi possa mai aver scritto quei dialoghi e su come facessimo noi sedic, diciassett, diciottenni a digerirli con tanta tranquillità guardando altri sedic, diciassett, diciottenni che avrebbero dovuto somigliarci.

A proposito di questo, però, osservare oggi quelle scene mi ha scatenato un flashback emotivo.
E’ stato più del rivedere una vecchia fotografia o ritrovare un diario di scuola. C’era anche quello, ma l’empatia è andata anche oltre. Mi sono ricordato, ed in un certo modo ho riprovato, come mi sentivo mentre guardavo quel telefilm rivelatore.

Erano gli anni fondamentali. Quegli anni in cui tutto cambia, mentalmente, emotivamente e molto, molto fisicamente. Ed uno come me, oltre ad affrontare una normale adolescenza con tutto il suo rimorchio di complessità (ah, quant’è complessa e sottovalutata!) si trovava in quegli anni a scalare la stessa montagna di Jack.

Tagliamo corto: Jack è ricchione. Ha trovato il coraggio di ammetterlo a se stesso e agli altri (incredibile per il ragazzino che ero all’epoca) e si affaccia con ripugnanza e curiosità verso quel mondo in cui, in quello stesso momento, mi affacciavo io con curiosità e ripugnanza. E molti pregiudizi, in gran parte fondati. E, dimenticavo, estremo terrore.

Jack è spaurito, in una discoteca gay per la prima volta, da solo (!!!). Tanta, troppa carne. Scappa. Come biasimarlo. Non ti sentirai mai a tuo agio in quei posti. Imparerai a dissimulare, dopo anni e un bel po’ di stomaco forte. L’allenarsi a sdrammatizzare, il disincantarsi, il disilludersi. Anche se una fiammella accesa da qualche parte rimane sempre. Poi capisci che puoi anche smettere di andarci, anche se l’allenamento è importante.

Hai la faccia del giovane e timido ragazzo gay alle prime armi, destinato ad avere il cuore spezzato” questa roba è bibbia.
Jack conosce un ragazzo bello, gay e disinvolto, sfacciato. Si vede che da un lato ne è attratto, dall’altro ha paura e non sa cosa farci. Ricordo che, incollato al televisore di fronte a quegli occhi chiari, io mi chiedevo cosa avrei fatto qualora fosse capitato anche a me. Sono quei momenti, unici e intensissimi, in cui si ha attrazione e repulsione allo stesso tempo per qualcosa che non si conosce, non si sa gestire e dove porterà (un po’ come la prima masturbazione, per dirne una). Il desiderio di parlarsi, quello di baciarsi, o magari no, quello di fare sesso (sì, ma come?). La paura che qualcuno ti abbia visto e di dove mi troverò alla fine di tutto questo.

Non continuo, non basterebbe un’enciclopedia in dieci volumi a sviscerare l’argomento in cui mi sto addentrando.
Però è stato curioso il modo in cui ho rivissuto tutto ciò, di come l’ho ricordato e di dove io sia adesso, il sapore di prima e quello di ora.
E’ un pericolo il modo in cui una matassa del genere si sbrogli da sola, se tutto va bene, sempre con il rischio che qualche nodino rimanga.

27/08/14

Say it.

Quando è successo?

Sono seduto sul water. Ebbene sì, capita.
Sul water del miei suoceri, che non sono in casa, la loro, e non lo sanno che sto sul loro water, anche se penso che se lo possano immaginare.
Tornando a bomba, sono seduto sul water e ho davanti lo specchio del lavandino. Mi osservo il viso pensieroso. E vedo un uomo.

Quando sono diventato un uomo?

Dev’essere stato quella volta che dalla sedia ho preso vestiti comodi invece di quelli alla moda. Oppure quando sono andato a fare una pennichella dopo pranzo. O forse mentre ero in coda alle poste.
Vedo la barba e qualche piega sopra gli zigomi e tra le sopracciglia, un po’ di occhiaie.
Vedo due occhi un po’ provati, rassegnati. O forse sono rilassati, magari anche sereni.

Mi chiedo spesso: cosa farò quando avrò perso la giovinezza, quando non terrò più tutti i pezzi insieme e non avrò più diritto a certi svaghi?
Penso che viaggerò, quello non me lo leva nessuno.
E poi leggerò.
E mangerò bene. Beh, quello un dottore potrebbe vietarmelo. Allora cercherò di mangiare bene, ogni tanto, senza dirlo al dottore.
Amministrerò i miei patrimoni (?).
Frequenterò gli amici.
Avrò tanti animali, tantissimi tutti intorno a me.

Se la vita lo vorrà, non sarò solo.

18/03/14

When you know what you're gonna say will leave a mark.

Sento il vizietto tornare.
Di essere qualcun altro, di esserne mille, non mi stancherei mai.
Di far ridere ed impressionare, di provare e riprovare, ogni volta in modo uguale e diverso, poi trovare la chiave giusta. Di far finta di non sapere cosa mi verrà detto o risposto, di calarmi in una situazione come mi stesse accadendo lì per lì, di far venire il dubbio se io stia dicendo o facendo sul serio a chi mi guarda.

E’ una cosa che da quando sono piccolo.
Me lo ricordo bene il momento in cui è scattato l’amore a prima vista con la recitazione: elementari (prima? seconda?), la maestra decise di metter su una recita di natale e molto democraticamente organizzò dei provini due a due per decretare la coppia di bambini protagonisti. La concorrenza era poca ma l’unanimità con cui vinsi mi pervase di immediata gratificazione. Questo, più il fatto che mi divertissi da morire nonché i complimenti delle altre mamme alla mia sulla bravura del figlio, mi fecero capire che avevo trovato la mia strada.

Con gli anni arrivavano sempre conferme sul mio “talento”, ma la frase da grande voglio fare l’attore suonò sempre in modo inverosimile. I miei erano i primi comprensibilmente a ridacchiare, specie quando lo dicevo davanti ad estranei. Continuai a dirlo per qualche anno, poi smisi. E da allora, triste da ammettere, ma non ho avuto più il mio sogno.
Paradossale invece che adesso, da uomo adulto, io sia convinto che se la fataturchina™ mi riportasse negli anni 90, percorrerei quella strada fino a farmi sanguinare le ginocchia su un teatro di provincia.
E’ vera la storia che la perseveranza nei sogni, premi. Ti accontenti anche di digiunare, di stare sveglio nella notte ed essere nullatenente per prenderti il tuo sogno. E il sacrificio non ti pesa.

Arrivato fresco fresco a Firenze, dopo anni che avevo chiuso con recite e rappresentazioni scolastiche, decisi di iscrivermi ad un corso di teatro. Era triennale, quotato e ben strutturato. Ma io ero solo un bancario, non dovevo farci nulla con la qualifica che promettevano a fine triennio.
Fui feroce con me stesso, mi tuffai da solo in un gruppo di estranei affinché solo non fossi più: per questo verso funzionò, per altri meno. Condivisi presto con i miei compagni l’incomprensione di quello che ci chiedevano gli insegnanti: erano poco pragmatici, mi aspettavo più un lavoro di pancia, scossoni emozionali, sfide con sé stessi e con gli altri (grazie a dio talvolta c’erano) ma anche molti meno discorsi trascendentali. Mi aspettavo le basi meccaniche della recitazione, gli esercizi di tecnica da imparare talmente bene da saperci poi costruire su la propria interpretazione. Ma l’incomprensione diventò troppa e con essa arrivò la mancanza di motivazione e, peggio ancora per un insegnante, di stima. Mollai dopo due anni.
Qualcosa però mi ha lasciato. Quel po’ di tecnica e di Stanislavskij che ti restano dentro come le regole della maestra delle elementari, tipo la sola parola con due Q è soqquadro.