13/11/13

I never meant to start a war.

Sul fatto che domani compio trent’anni il me bambino mi punta un dito contro e dice “Quanto sei vecchio” mentre il me anzianotto dal canto suo mi incalza ironico “Per caso vuoi fare a cambio?”.

Io non so cosa sono o cosa voglio. Probabilmente NON voglio celebrare questo compleanno, non voglio più celebrarne alcuno. E’ indubbiamente una data significativa, ma ultimamente meno rumore fa e più sono tranquillo. (Fino a fine giornata, quando mi deprimo perché nessuno mi ha celebrato).

Ho trent’anni, li ho avuti da quando ne ho compiuti venti ma ora che ci sono ha un altro sapore.
Ho trent’anni e posso dichiararmi soddisfatto: ho comprato casa, ho un buon lavoro, ho un compagno che mi ama quanto e più io ami lui, ho un cane che mi ama meno di quanto io ami lui,ma ha imparato a sopportarmi.
Ho trent’anni e mi sono tolto i miei sfizi, e sono ancora sano come quando ho cominciato.
Ho trent’anni e guardo ancora al futuro, quello penso che lo farò anche a sessanta.
Ho trent’anni e vorrei un figlio.
Ho trent’anni e mi manca mio padre, ma per ora non ci stiamo scostando molto da come dovevano andare le cose.

Ho trent’anni e dentro di me c’è ancora quel bambino e c’è già quel vecchio.


28/08/13

Head under water.

“Alla fine succede, in qualche modo che prima non sapevi.”


Rientro a casa ed il cane mi viene incontro.
Cioè.
Va incontro alla pallina, se la porta via e mi guarda con fare minaccioso e provocatorio, poi quando vede che non lo considero me la porta proprio.
Nel frattempo sto togliendomi scarpe, giacca e cravatta, mi do una lavata ed inforco jeans e maglietta. Il cane ha capito che stiamo uscendo di nuovo e allora salta come un grillo.
Per strada supero il box del fioraio ladro e punto direttamente all’Ape parcheggiata lato strada che vende mazzi di roselline a cinque euro. Il “titolare” non fa che chiamarmi dottò e risce a sganciarmi dieci euro, tra l’altro confezionandomi i fiori in un elegante foglio della Gazzetta.
Punto di nuovo a casa, ma non salgo: io ed il cane montiamo in macchina e guido verso l’ospedale, in mezzo al traffico dei tifosi della Fiorentina che vanno allo stadio.
Mentre percorro i cortili della città-nella-città che è Careggi, penso che la vita cambia e ti conquista. Tutto quello che hai sentito fare da sempre, e che ti ha sempre lasciato indifferente, adesso ti sembra un’avventura, un’impresa emozionante, che sia lavorare o comprarsi casa o... fare un figlio.

Tuo figlio, detto anche arbitrariamente “mio nipote”, è bellissimo, minuscolo, fragile.
Me lo dai in braccio, non so neanche tenerlo talmente è piccolo. Gli sorreggo la testolina, dorme pacifico, sembra non accorgersi di nulla e invece ci siamo incontrati per la prima volta.
“Ti voglio già bene” gli sussurro.

E’ davvero quel miracolo che dicono.

18/06/13

This type of modern life, is not for me.

L’ossessione è inevitabile.

Camminiamo sul lungarno, mangiando un gelato. Il cane tira, come al solito me ne sono dimenticato quando ho scelto la coppetta, con tutte le difficoltà del caso.
Mi rimbalza in testa il nome di questo Francesco che hai nominato. In realtà qualsiasi nome maschile ti esca dalla bocca che non sia un tuo parente mi fa dare per scontato che ci hai avuto a che fare in senso biblico.
Infatti ti chiedo se con Francesco ci hai fatto roba.
“Eccome.”
Butto il gelato, non mi va più.
Tutt’a un tratto anche il cane tira in modo troppo fastidioso e allora lo strattono.

Secondo me il termine “amore” andrebbe rivisitato. Accezione troppo positiva.
“Tormento” andrebbe già meglio, perché quando si ha a che fare con l’amore, ti ritrovi a gestire tutto il grappolo di reazioni uguali e contrarie che comporta.

Il problema è che ne vale la pena.

02/04/13

Are we supposed to be together?

A parte un breve accenno nel post precedente, non ho parlato di come sei entrato nella mia vita, di come l’hai infilzata e ti sei piazzato dolcemente nel profondo e io sto già pensando di dirti che ti amo.

Ti ho conosciuto una sera di gennaio, a ballare. Indossavi una canotta. A gennaio. Voi froci vi piace rendervi ridicoli. Comunque, ho notato subitissimo le tue ciglia lunghe: erano le più belle in pista e mi guardavano costantemente. Anche il tuo amico mi guardava ma io ho optato per te, lui era fisicato ma sembrava pazzoide. A due terzi della serata sei venuto a parlarmi ridendo, ti ho chiesto di dove fossi e mi hai risposto Genova, il ché ti escludeva da qualsiasi mio ulteriore interesse. Solo che perseveravi e rimanevi lì dov’eri, a trattenermi nel mezzo della pista, ubriachello a guardarmi con quegli occhi belli. Vuoi un bacio, ti ho chiesto e tu hai detto sì, allora ce ne siamo dati uno lungo mezzora, ma per me finiva lì. Invece rimanevi e io non riuscivo a dirti di no. Siamo andati in macchina dove abbiam fatto come due sedicenni, l’hai detto proprio tu dopo, “come due sedicenni” e la mia maglietta ne ha fatto le spese. Per me finiva lì. Abbiamo voluto scambiare facebook e numero, ma sai quanti facebook e numeri c’ho io in soffitta che ogni tanto li vedo e mi dico che potrei anche buttar tutto via.

Invece no.

Sei diventato una costante, mi hai sorpreso fino a farmi soffermare, demolendo le convizioni che credevo di aver consolidato su chi volessi accanto a me: uno che fosse tutto il contrario di te.
Hai insistito perché ci rivedessimo, così sei sceso da me con un borsone una sera di San Valentino, mi hai raccontato tutto, anche più di quello che meritassi e da lì in poi abbiamo fatto l’amore.

Ora non mi ricordo da quanto ci sei e come hai fatto, basta che rimani.

06/03/13

A hundred O's and X's lighting up the dark, now they turned into a question mark.

Siamo in uno scantinato di Soho, in pratica.
La cosa però non mi sorprende: tantissimi luoghi pubblici a Londra si sviluppano nei sotterranei.
Una ragazza è appena arrivata in compagnia di due amiche, parla intervallando “fucking” ogni due o tre parole e chiede di farsi un piercing al capezzolo.
Ad un certo punto dal retro la tatuatrice spunta e mi fa segno di entrare. Ha un caschetto nero, occhiali spessi anni 60, una camicia di jeans abbottonata fino in cima e dal collo spunta un’ancoretta. Braccia completamente tatuate. Mi ispira fiducia, è netta, pulita, chiara. Mi chiede in che verso lo voglio e io cerco di spiegarmi. Non funziona dato che me lo ricalca al contrario. Allora glielo rispiego, “upside down” e me lo ricalca per il verso giusto, ma è troppo spostato sull’interno. Penso che rimarrebbe lì posizionato male per il resto dei miei giorni e allora mi faccio coraggio e le ridico che ancora non va bene, va messo più esterno. Ora ci siamo, ho un campo di battaglia sull’avambraccio ma la posizione definitiva è quella giusta.
Penso alla chicken pie che ho mangiato per pranzo e ho paura di vomitarla o di svenire, ma non succede. Mi fa distendere prono su un lettino incelofanato e si mette il mio braccio in mezzo alle gambe, poggiandolo su un piedistallo incelofanato.

Comincia.

E io penso a mio padre, che scuote la testa sorridendo e dice che sta roba non era necessaria e che sono il solito scemo. Penso a quando ha accettato il primo che mi ero fatto e a tutte le altre cose che ha accettato capendo che ormai fossi cresciuto e potessi salvarmi solo da solo.
Passo ad un po’ di pensieri felici, mia mamma e mio fratello, Birillo che mi annuserà la crema che metterò sul tatuaggio, guardandomi interrogativo con quelle due olivette nere che si ritrova al posto degli occhi. Penso alla casa che sto comprando e al ragazzo sorprendente che sto frequentando.
Mi abbandono.

Sono la solita pecora nera, ma qualcuno in ogni famiglia deve pur esserlo.