14/10/11

I wouldn’t change a single thing.

Per intenderci, non è tanto che quest’anno c’è il Censimento e che a me di questionari ne sono arrivati tre (uno per posta, quello previsto, e due brevi manu da mamma e zia perché “tu sei più bravo in ste cose”).
Non è neanche che ho dovuto già avere a che fare con operai e meccanici e tecnici furbetti, provando una gran rabbia per le ingiustizie sociali e per le fregature personali.
Non è manco la burocrazia, così tanta da dare alla testa e da farmi concludere che non riuscirò mai a stare dietro a tutto, ma provandoci almeno mi perderò il meno possibile.
Non è neppure che mi ritrovo single nel momento in cui forse questo mi serviva di meno, o magari mi serviva proprio questo, perché chi mi stava accanto non meritava che fossi così distratto.
Non è neanche il gran silenzio, di sottofondo.

E’ che mi manchi. Visceralmente.
Che mi piacerebbe credere al soprannaturale, poi però tocca scuotere la testa e farci su un sorriso.
Che certe volte, mentre guido da solo in macchina, e dio solo sa quanto mi è capitato ultimamente, provo a dire PAPA’, la mia voce e l’istintività della parola rimbalzano nell’abitacolo e mi fanno impressione, ed è come mettere un dito in una ferita e questa comincia a frizzare.

 Ma sì, è normale. E’ normale che tu per ora ti senta apparentemente bene, che riesci anche a sorridere. E’ esattamente come quando ci facciamo male su qualche punto del corpo: lì per lì senti molto male, poi le terminazioni nervose intorno alla ferita vengono inibite dall’organismo, per permetterci di sopportare il dolore e allora ti sembra che non ti faccia così male. Quando però i nervi tornano a funzionare e si riacquista lucidità, la ferita riaffiora e torna lì a pulsare  e ricordarti che c’è. Finché non guarisce e lascia spazio ad una cicatrice.

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